Ho cercato di essere per lui il battesimo di fuoco perché nella sua affermazione io sono il primo a credere. Ho cercato di essere per lui il sacco su cui sfogare le tensioni, gli anni in cui non tutto arriva subito, e quindi il carico mentale e fisico a cui si sottopone la tua testa e il tuo cuore sono il doppio rispetto allo standard. Ho perso, per mia grande gioia perché Salvatore Boccia mi ha messo k.o. con la sua determinazione, con il clamore di una vita fatta di routine e di costanza, di quei sogni che a dieci anni prendono forma dalla Frassinetti di Oristano e si evolvono, cambiano, crescono con lui. Sono i sogni di chi può essere tutto, chiunque, calciatore o medico, astronauta o suonatore di asterischi.
Riuscire a fare sogni tridimensionali, senza chiedere mai niente al mondo, solo te.
Parafrasando la vita di Boccia e un po’ il miglior Samuele Bersani di Replay, i sogni di Salvatore sono così ben disegnati che hanno tre dimensioni e nella profondità dell’esistenza ciò che cerca, il te di Bersani è il calcio, a cui questo incredibile ragazzo di ventidue anni ha dedicato dodici lunghissimi anni ininterrotti della vita. Non voglio avere rimpianti – mi dice con straordinaria lucidità – non posso permettermelo.
Hai ragione Boccia. Nessuno come te non può credere che quel treno debba passare e, scegli tu che nome dargli, ma presentati sempre al binario, perché altrimenti se quel mezzo non passa per te dal calcio abbiamo perso tutti. Conosco e seguo il Boccia dell’Olbia, della Turris e del Novara e ne seguo le gesta da qualche stagione, ed oggi lo ritrovo con la stessa cattiveria agonistica e con lo stesso sguardo di chi vuole passare sopra l’erba con le ali in una società che lo ha fortemente voluto e che si chiama FC Arzignano Valchiampo.

Boccia, perché Arzignano?
“Perché sono stato fortemente voluto e desiderato da questa società. Non c’è stato giorno in cui non mi arrivasse la telefonata del Presidente o del DS. Ho chiamato Matteoli per chiedergli un consiglio. È stato onestissimo e mi ha detto che quando una squadra ti richiede con così tanta determinazione, bisogna dire di sì. Mi ha molto colpito la fiducia così appassionata che sin dai primi giorni mi è stata trasmessa e sono qui per continuare un percorso cominciato tre stagioni fa quando ho girato Torre Del Greco, Novara e Olbia”
Il cambiamento non la spaventa?
“Sono sincero nel dire che avrei voluto maggiore stabilità. Riniziare da zero non è facile ogni anno. Cambi città, vita, persone, routine. Lo dico perché sono una persona abitudinaria che indissolubilmente si lega alle piccole quotidianità. Vorrei trovare una piazza in cui cominciare un progetto a lungo termine, o avere continuità nelle stagioni a venire”
O il grande salto.
“Sono nell’età in cui voglio provare a farlo. Sto lavorando da anni affinché possa arrivare il momento. Quest’anno supererò le cento partite in serie C. Ne ho giocate novantasette. Non penso di essere presuntuoso nel dire o nel pensare di voler essere ambizioso”
Arriva da una stagione come Novara che descriverebbe come?
“Importante. Credo la stagione in cui, in progressiva crescita, ho fatto meglio nel complessivo triennio. Mi sentivo in condizione fisica e mentale giusta e puntavo ad uscire bene. Riparto con la stessa determinazione e la stessa grinta”

Obiettivi personali e della società.
“A livello personale, ribadisco la volontà ferma di giocare e fare bene, dimostrando di essere pronto per fare un ulteriore passo avanti. La società vuole migliorarsi rispetto allo scorso anno. Cercheremo subito di raggiungere l’obiettivo salvezza, il resto lo si considererà in corso d’opera. Dobbiamo ancora cominciare e ci aspettano subito delle sfide importanti”
Le squadre da temere.
“Triestina, che incontriamo subito e poi le direi anche Vicenza e Padova. Società importanti, che hanno una tradizione e una storia e allestiscono delle ottime squadre ogni anno. Per il resto penso che questo sia il girone più complicato della serie C anche perché ci sono società seguitissime che lavorano sempre molto bene”
Di lei si conosce poco. Timido, schivo.
“Magari quest’intervista farà venire fuori qualcosa di diverso. Non amo magari condividere molto di me pubblicamente, ma con le persone che amo sono tutt’altro che timido o schivo”

Si ricorda la prima volta in un campo da calcio?
“Alla Frassinetti di Oristano, che poi è la mia città. Avevo dieci anni ed ero già grande rispetto ai miei coetanei che avevano cominciato a cinque o sei anni. Ho giocato alla Frassinetti per due anni, poi è arrivata la chiamata per fare il provino al Cagliari e Matteoli mi selezionò. Da quel momento la mia carriera è cambiata, perché ho trascorso tutti gli anni dell’Under e della primavera con il Cagliari ed è stata l’esperienza che ha segnato la mia carriera calcistica”
Incomincia tardi, ma la telefonata arriva subito. Che cosa ha distinto Boccia dai coetanei dell’epoca?
“Credo la testa. Non parlerei di particolari doti fisiche o tecniche. Avevo le idee chiare e ho realizzato subito il fatto che volevo fare di quel gioco una professione. Penso che ci voglia una certa mentalità per fare sì che certe cose arrivino. Parlo di sacrifici, metodo, allenamento, rinunce. Nel mondo del calcio devi essere anche piuttosto scaltro e sveglio per capire da subito certe dinamiche”
Nel suo caso ha contato molto anche la famiglia.
“Ha contato tantissimo. Ho visto molti genitori stare tanto con il fiato sul collo dei propri figli, quasi a voler comunicare un’ambizione più loro che dei figli stessi. I miei già dal primo anno a Cagliari mi hanno lasciato lo spazio giusto per le scelte che volevo fare e mi sono stati accanto solo come grande supporto fisico e morale. Mi hanno sempre detto che mi avrebbero guardato allo stesso modo, con grande orgoglio, a prescindere da ciò che avrei deciso di fare con il calcio o con la vita in generale. Io volevo questo, per loro avrei potuto essere qualunque cosa. Quando parlo di supporto fisico intendo dire che per tantissimi anni hanno fatto la spola tra Cagliari e Oristano ogni giorno, facendo sì che potessi finire la scuola pubblica nella mia città e potessi allenarmi al centro sportivo al pomeriggio. Non li ringrazierò mai abbastanza per tutti quei pomeriggi passati spesso a vedere gli allenamenti o a passare il tempo per aspettare la fine delle sedute di allenamento. Ciò che sono è gran parte merito loro”
Cosa ricorda degli anni del Cagliari? Parlo di anni vincenti.
“Ricordo l’anno della primavera prima della chiusura dei campionati per la pandemia. Bella squadra, gran campionato, nel quale viaggiavamo a -3 dalla prima. Con mister Canzi, che poi passò in prima squadra e mister Ago, sono certo che avremo potuto continuare su quella scia vincente. Non so se avremo vinto il campionato, ma eravamo certo lanciatissimi e proiettati a chiudere bene quella stagione”

Gli amici di quegli anni?
“Abbiamo ancora un gruppo su whatsapp con quelli di quegli anni. In generale sono uno che tende a svelarsi solo con poche persone. Credo molto nell’amicizia, ma il calcio spesso ti porta ad essere selettivo, a cambiare spesso piazza e ricominciare da zero con i rapporti umani. Però certamente non posso non menzionare Andrea Carboni, con il quale siamo stati la coppia difensiva del Cagliari già da quando eravamo piccoli, o Gianluca Contini, che è a Verona e con il quale ho un bellissimo rapporto e Giuseppe Ciocci”
Mi parli di quest’ultimo. Sembrate anime molto simili.
“(ride n.d.r.) No, siamo diversissimi. All’inizio eravamo abbastanza distanti, poi siamo stati mandati in prestito all’Olbia e abbiamo trascorso dei momenti di crescita con le difficoltà che essa porta con sé. Abbiamo legato molto in quell’anno e già dalla fase di ritiro. Giuseppe è un professionista, un ragazzo che merita molto da questo sport”
La prima convocazione in serie A se la ricorda?
“Indimenticabile, Cagliari-Torino. Fu la prima partita da titolare di Andrea Carboni e vincemmo 2-0. Il campionato riprese a giugno per la pandemia, fu un’emozione bellissima”
Ho intervistato molti di quegli anni al Cagliari, ma a nessuno ho mai chiesto se si sentisse l’invidia o la forte competizione per chi riusciva ad entrare in prima squadra.
“Io sono sempre stato felice per gli amici e i compagni che realizzavano qualcosa per cui avevano lavoro e nella quale avevano creduto. Se ho sentito l’invidia di qualcuno? No, non credo. In generale non mi sono mai occupato di notare questi aspetti. Ho sempre pensato a lavorare e fare il mio. Dei sentimenti altrui in questo senso non mi sono mai curato”
Quanto pensa e quanto le manca la Sardegna?
“Il giusto. Staccarmi dal Cagliari è stata una opportunità che il club mi ha dato ed è stata una chance di crescita importante. Mi manca la mia famiglia, le mie sorelle Federica e Giulia, le mie cugine Giusy e Melissa, che sono come due sorelle, ma sono ad un’ora di volo e in un posto dove ci sono aeroporti a nemmeno 80 km. Sono fortunato, perché potrò vederli qualche volta quando verranno a vedermi. E loro sono sereni sul fatto che sono lontano da casa perché questo era ciò che desideravo sin da piccolo. Ovviamente il sogno di rigiocare a Cagliari resta sempre, ma se stai bene fuori dal contesto famigliare, all’Isola pensi meno”
Qualche giorno fa si sono concluse le Olimpiadi. Oristano ci ha regalato l’oro di Orro, l’argento di Oppo, e un quarto posto in staffetta di Patta. Si è mai chiesto perché sia Oristano il centro dello sport isolano?
“Credo perché lo sport diventa la vera alternativa rispetto a tutto il resto. Lo sport ti educa, ti fa evadere dal contesto della famiglia e della scuola e a Oristano le alternative sono meno rispetto alle altre città. Cresciamo con la cultura della piazzetta, del campetto con gli amici, dove si gioca, così facevo io, dalle due di pomeriggio alle otto di sera in estate. È inevitabile che poi se fai quello con costanza, poi sei più proiettato a continuare cercando di arrivare. Per quello che riguarda gli oristanesi a Parigi posso dire che conosco tutti di vista, ma ho avuto la fortuna di avere la mamma di Stefano Oppo come insegnante di religione. La ricordo con affetto e ricordo la sua comprensione quando decisi di fare a meno l’ora di religione per poter andare al campo prima. Fu diretta e mi disse che capiva la mia scelta, anche perché sapeva quali fossero i sacrifici che anche Stefano stava facendo per affermarsi. Sono felice per lui e per la sua famiglia”
Quanto è difficile essere Boccia? Lei sembra davvero brevettato per il calcio.
“Non particolarmente. La mia routine sveglia-campo-pranzo-riposo-palestra o piscina-casa può sembrare impossibile. Ma a me non occorre altro. Vorrei riprendere a studiare perché mi sono preso una pausa una volta finita la scuola per concentrarmi sul calcio. Penso che mi iscriverò in Scienze della Nutrizione. È un mondo che mi piace e sul quale vorrei formarmi meglio per costruirne un giorno una professione”
Meglio la serie A Boccia. Noi la aspettiamo lì.
“(ride n.d.r.) Grazie, ma un piano B è sempre bene averlo”