GABRIELE TINELLI. L’ORA IN CUI A BORORE RICOMINCIA LA SALITA.

Quando ho letto il suo nome affiancato a quello della Pallavolo Borore ho subito pensato che la risalita non potesse ricominciare da una casa migliore. Perché quel luogo che continuerò ad affermare, a me ha umanamente restituito tantissimo è e sarà salvifico per molti pallavolisti sardi in cerca di qualcosa che assomigli sicuramente ad un buon avvenire, ma che abbia anche dei fattori intangibili che si chiamano casa, famiglia, squadra. La storia di Gabriele Tinelli la si può riassumere con una parola, ossia la parabola. Se vi piace di più e siete amanti dei parchi a tema, direi anche montagna russa. 

Si parte da Telti, dallo specchio di una porta, dove Tinelli muove i primi passi. È il calcio, bellezza. Poi si aggiunge un incontro fortuito, per entrambi, da un parrucchiere. Stavolta è Debora Arberi, presidente della Time Out Volley, che convince Gabriele a provare la pallavolo, sport che non lascerà mai più:

“E poi c’è un viaggio, dopo alcuni anni, ne avevo quindici per l’esattezza, in cui mi viene proposto di giocare a Foligno, provare la B, giocare come opposto in serie C per muovere i primi passi fuori dalla Sardegna. Papà era felice, mamma non era proprio al settimo cielo. Sono molto legato alla mia famiglia e anche per me separarmi da loro non è stato assolutamente semplice. I primi mesi durissimi, poi piano piano è partito tutto”

Gabriele Tinelli (Pallavolo Borore)

Arriva anche Macerata.

“Alla Pallavolo Macerata ho fatto un salto di qualità, perché ho potuto allenarmi con la serie A3, oltre alla C e poi con l’Under 18 fare la Junior League, realtà che mi ha dato la possibilità di giocare contro molti ragazzi che ora si giocano dei campionati importanti. Ho avuto la fortuna di trovare sulla mia strada un palleggiatore come Natale Monopoli che ha concluso la sua carriera a Macerata e che mi ha lasciato tanto”

Arriva il Covid e per lei Tinelli è l’anno di un infortunio.

“Il mio annus horribilis. È vero. Il Covid che blocca i campionati, poi la ripresa, l’infortunio, l’operazione al ginocchio e il lungo periodo di stop. Sono tornato a casa, come ha detto lei è stata una montagna russa, perché quando si è trattato di riprendere, mi sono ritrovato in serie D con la Time Out. Ho giocato palleggiatore, è stato un inizio graduale e sicuramente particolare. Da febbraio di quest’anno però, ho ritrovato il campo, cosa che mi ha dato l’opportunità di ripartire, rifacendolo alla Time Out, che per me è sempre rimasta casa”

Mi dica cosa le è passato per la testa quando si è ritrovato dalla A3 a fare un triplo salto all’indietro. Non è facile.

“Devi guardare sempre il bicchiere mezzo pieno. Stai bene, puoi riprendere a giocare, l’operazione è andata bene. Devi essere bravo a buttarti tutto alle spalle e a non pensare cosa sarebbe successo se non mi fosse successo quell’infortunio. Poi sei in serie D, magari ogni tanto puoi tirare più forte, puoi fare qualcosa di diverso che hai appreso in altri campionati. Non è stato facile, ma ora sono qui”

Gabriele Tinelli, Andrea Virdis, Gabriele Vargiu (Pallavolo Borore)

Qui a Borore. L’inizio della risalita.

“Un punto di ripartenza. Sono stato accolto benissimo sin dal primo giorno, in una squadra che mi ha dimostrato stima e affetto sin dal primo allenamento. Ho potuto riprendere a giocare in un bel campionato nazionale, ritornando ad abbracciare una categoria competitiva. Veniamo da qualche piccolo infortunio, e anche io dopo il derby contro Sestu ho avuto qualche problema. Ora sono rientrato, anzi, siamo rientrati a regime e proverò a dare il mio contributo alla squadra per risalire in classifica”

La salvezza può arrivare?

“Sì. Ce la metteremo tutta. Questo lo scriva”

Avete un valore aggiunto. Il pubblico bellissimo di Borore.

“Il nostro settimo uomo in campo. Anche papà il sabato si trasforma in ultras con le trombette e viene con mamma a darci sostegno. È una piazza bellissima che ama la pallavolo”

Lei gioca anche a beach volley. Conoscerà il torneo estivo più famoso del centro Sardegna.

“Ho promesso che quest’anno ci giocherò perché so che si crea un bellissimo movimento qui in estate. Il beach ha fatto parte del mio passato grazie ad un’esperienza della rappresentativa che ho fatto assieme a Matteo Saba. Bellissimo momento e ottimi ricordi. Adesso le speranze sono riposte nel volley. Con Borore voglio cominciare ad invertire la mia rotta personale”

Dove si vede da qui ai prossimi tre anni?

“Non voglio porre limiti. Sicuramente voglio ricominciare a salire”

LORENZO ISAIA E UNA DETERMINATISSIMA RISALITA DELL’IGLESIAS CALCIO

Ho imparato, qualche giorno dopo la fine dell’intervista, che in spogliatoio è per tutti Isss, con tre esse. Pensavo fosse El Profeta, ma quello è un po’ per tutti, perché è il suo nickname su Instagram. Non so però quanto Lorenzo Isaia sia alla portata di tutti. Intendo dire che il vero Isaia forse noi pennivendoli non lo conosceremo mai, poiché combattuto da una facciata, più che faccia un po’ spavalda e a tratti leggera e invece una dimensione più intima che devi attendere il momento giusto per vederla. Qualche mese fa, ad una partita dell’Iglesias mi è capitato di vederlo in solitaria, poco prima del fischio di inizio. Forse non pensava di essere notato, dato che in campo era un gran vociare e lui non partiva nemmeno dai titolari.

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C’E’ CHE PRENDO UN TRENO CHE VA ALLA VELOCITÀ DI MATTIA PITZALIS.

Partiamo dai giochi di società, così vi faccio uno dei miei panegirici. Quando avevo ancora la sua età, ed ero uno studente squattrinato di lettere, frequentare un posto di cui non ricordo più il nome a Cagliari, nel quale si poteva giocare ai giochi di società e basta. Premesso che li ho sempre odiati, ma costretto dalle circostanze dei pessimi compagni di squadra che mi ritrovavo all’epoca, obbligavo le persone a fare gli unici due nei quali ero bravissimo, pur non essendo adatti nemmeno agli infanti: Spago Spaghetti e l’Allegro Chirurgo. Ecco, non so se abbiate presente la delicatezza con la quale dovete affrontare il secondo, cioè manualità (e con due zampe come le mie è cosa difficile se non impossibile) e soprattutto abilità. Ebbene, lorsignori, l’Allegro Chirurgo è stata la partita che io ho vinto contro Mattia Pitzalis. Ho capito fosse una missione la sua risposta lapidaria “non sono tipo da queste cose, ma per te la faccio” alla mia richiesta di intervista. Ho capito in quel momento che volevo giocare quella partita. Un treno contro un triciclo (vi lascio immaginare chi sia il triciclo). Un introverso contro il re degli estroversi. Un calciatore che forse non è ancora consapevole della strada che ha fatto contro uno che ha capito chi si trovava davanti solo a leggere nei mesi scorsi quattro righe di bio. Infine, uno di cui non si trova mezza riga di intervista in rete contro uno che legge tutto ed è pronto sempre su qualsiasi argomento. È lì che viene fuori il genio. Ossia, giocarmi Federico Sirigu. Di lui vi parlerò tra qualche settimana, ma è certamente uno che mi ha aperto qualche porta relativamente a Pitzalis. È bastato capire il contesto, gli anni del Cagliari, la distanza da casa negli anni della Turris e Legnago. È bastato capire che Mattia ti lascia un attimo sul binario, e tu non devi perdere la calma. Perché poi ti carica con lui, e come dice Gianluigi Illario, il suo capitano di questa stagione “poi Mattia è un treno, che corre e che ti segue. Che si lancia e che fa gruppo. Che si scopre e cambia tutto”. Io sul treno di Pitzalis ci sono salito per un’oretta, il tempo di capire che non sarà il primo e l’ultimo di tanti viaggi che vorrò fare assieme a lui.

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Considero un onore averla su Sportisola.

“(ride n.d.r.) Non mi piace parlare di me. Sono molto chiuso e lo sono sempre stato. Chi mi conosce però sa che ho bisogno dei miei tempi. Ho bisogno di conoscere e di farmi conoscere. Trascorso il periodo nel quale studio la situazione, ci sono. Puoi contare su di me, in squadra, in campo e fuori dal campo. È in quei momenti che scopro anche io le mie carte ed è poi difficile che gli amici e i rapporti umani che creo finiscano nel dimenticatoio”

Andare d’accordo con lei non è semplicissimo.

“All’inizio. Devi darmi il tempo”

Ad Iglesias dicono che trascorso il tempo giusto, sia venuto fuori un uomo spogliatoio.

“Mi piace trovarmi in un ambiente nel quale posso prendermi i miei spazi, senza nessuno che mi metta fretta nel dire o nel fare qualcosa. Partirei da Carbonia, dove lo scorso anno si è creato qualcosa di molto bello. Che quest’anno con il lavoro di tutti, ci ripromettiamo di creare qui ad Iglesias. Anche con il contributo di chi quell’atmosfera l’ha vissuta la scorsa stagione. Parlo di Isaia, Mastino, Porru, Hundt. Siamo sulla strada giusta”

Sono diverse settimane che Iglesias è migliorata nel gioco. Il gruppo si è creato?

“Sì, intanto abbiamo trovato un nostro modo di giocare e la qualità del gioco ne ha beneficiato. Sono certo che da qui alle prossime settimane verrà fuori il vero Iglesias. Per quello che riguarda il gruppo sì, si è decisamente compattato e anche se abbiamo fatto fatica forse perché eravamo davvero una squadra nuova in tanti reparti, sono certo che ora si può soltanto crescere”

L’Iglesias ha bisogno del treno Pitzalis. Da dove nasce questo modo di dire?

“Me lo dicono da sempre. Credo per come mi muovo sulla fascia. Mi è capitato anche quando ho fatto qualcosa con l’Under 20 in Nazionale. Mi fa piacere come modo di dire, anzi”

La sua carriera, nonostante i suoi ventidue anni, è ricca di esperienze. Comprese le esperienze di Turris e Legnago. Positive?

“Sicuramente sono esperienze che sul curriculum hanno un peso, e sono anni, come quello di Olbia, dopo le giovanili al Cagliari Calcio, nei quali mi sono ritrovato a condividere il campo con giocatori di tutto rispetto. Concluse le parentesi fuori dalla Sardegna, ho sentito l’esigenza di rientrare”

Cosa le è mancato della Sardegna?

“Casa, gli amici, se vogliamo anche il mare dove mi capita di passare qualche ora quando ho bisogno di staccare un po’. Ma in generale la mia vita di sempre. Sono cresciuto a Siliqua, la mia vita è qui ed è qui che sto bene, anche calcisticamente parlando. Ho capito ad un certo punto quali fossero i punti fermi della mia vita. E stare a casa è stato uno di quelli”

Posso chiederle, e mi rendo conto che è presto per fare i conti con la vita, se lei per il calcio ha dato il massimo?

“No, potevo fare di più. Anche in termini di resistenza. Posso però dire che ho ancora tempo per dimostrare il mio valore. E mi prendo ancora un po’ per poterlo fare”

Il meglio di Pitzalis lo vedremo in Sardegna?

“Sì. Mi piacerebbe vincere qui”

EZEQUIEL CORDOBA – INDIPENDIENTE GOLEADOR DE MAIPU’ E ORA SEMPRE DI PIÙ DEL CARBONIA CALCIO

Quando i suoi occhi, seppur pieni di quel gol che sabato ha regalato al Carbonia Calcio la quarta vittoria su quattro partite, sono diventati leggermente malinconici, al pensiero della commozione provata da mamma e papà, seduti davanti a un pc a Maipù, in Argentina, ho deciso di portare Ezequiel Cordoba a fare un viaggio assieme a me. Un viaggio lungo, che parte dalla serie B sudamericana, dove la sua ex squadra, la Indipendiente Rivadavia, ora si gioca la Primera B Nacional. Un percorso di tanti anni, giocato al massimo, nel quale Cordoba, due anni fa, salta su un aereo in direzione Civitanova.

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MAURO ALCARAZ E SANTIAGO BRAILLY. LA FRATELLANZA IN NOME DEL CALCIO. DEL CARBONIA CALCIO

Due fratelli. Che si conoscono in giro per il mondo. E che quel mondo si chiami Germania, Grecia, Spagna, ossia tutti campionati in cui almeno uno dei due ha militato, poco importa. Si sono scelti. È nata un’amicizia che è anche un cerchio attorno a due connazionali. Un trentenne di Viedma e un ventitreenne di Buenos Aires. Mauro Alcaraz e Santiago Brailly. La classe di un portiere severo, e la grinta di un difensore agguerrito su ogni pallone. Sono i nuovi volti argentini, assieme a Ezequiel Cordoba, che illuminano il Carbonia Calcio e lo Stadio Zoboli, spingendo la squadra mineraria verso un traguardo che non si chiama solo salvezza:
“(Alcaraz): A me piace pensare che la squadra che si è creata possa arrivare più avanti della salvezza. Siamo un bellissimo gruppo e stiamo crescendo molto”.
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IO E FABBRO CI RITROVIAMO AL PALAROCKFELLER VENT’ANNI DOPO. VENITE ANCHE VOI.

Il me dell’ottobre 2003 lasciò l’allora Palarockfeller qualche mese prima salutando Andrea Masini, ex palleggiatore dell’allora Alimenti Sardi Cagliari, un po’ con il lutto al braccio. Palleggiatore meticoloso, grandi tocchi, serioso e imperturbabile. Rientrai il 5 ottobre per vedere il Terra Sarda Cagliari e soprattutto l’esordio di Marco Fabroni. Alla fine del secondo set ricordo di aver pensato una cosa che qui non posso scrivere per doverosi motivi di etica giornalistica. In sostanza, io e quel gruppo di tifosi eravamo già pazzi di lui. Diventò il nostro, il mio “Fabbro” (sì, mi voglio prendere la libertà di tifoso pretenzioso e abbonato) quella domenica per tutte le settimane a venire. Ci regalò domeniche di pallavolo indimenticabili, ci portò in serie A1, lo sapete tutti.

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Finalmente allo Zoboli. È casa tua, Maurizio.

Ho sperato che tornassi, straniero. Quando sperduto in chissà quale assurda provincia dell’Olanda, mi mandavi messaggi vocali alle ore più disparate del giorno e della notte. Maurizio ha sempre fatto emergere quel lato fraterno che ho con pochi. Quell’istinto di protezione che si ha quando persone a cui inevitabilmente ti leghi, fanno scelte dettate dall’età, dalla ribellione degli anni in cui è giusto essere soprattutto così.

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Essere un numero uno. Il ritratto di Simone Aresti

Seguir con gli occhi un airone sopra il fiume e poi ritrovarsi a volare e svegliarsi sopra l’erba ad ascoltare un sottile dispiacere. Ho bisogno del miglior Lucio Battisti, quello di Emozioni, per spiegare il personaggio più complesso che io abbia trovato nelle corde di Sportisola. Ho bisogno di Simone Aresti, come cantautore del calcio isolano, perché il calcio senza Simone sarebbe meno bello, meno sentito, meno passionale. Ho bisogno di lui perché il modo di sedersi sopra l’erba e scorgere ogni angolo del campo è il migliore che abbia mai visto da quando scrivo di questo incredibile, benedetto e maledetto sport. Aresti ha volato, compiendo traiettorie e migrazioni che lo hanno reso autentico. È caduto, migliorando la sua vita e il suo calcio giocato. È atterrato sul mondo che lui stesso si è disegnato a sua immagine e somiglianza, diventando un riferimento per questo universo fatto di colori e di sfumature che non sempre sono in grado di essere interpretabili. Ho desiderato essere accanto a lui in molte parti di quest’intervista, per guardarlo negli occhi, ringraziarlo per la sincerità, capire se quell’oltre che percorrevamo assieme, era troppo per quel momento. Ho avuto bisogno di fermarmi, ascoltarlo, riascoltarlo non per il vezzo di aver portato a casa la migliore storia degli ultimi mesi, ma per la necessità di portare con me ogni riflessione e ogni pausa di oltre due ore trascorse assieme. 

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Il tempo in cui siamo stati liceali e tifosi di Simone Aresti

Roberto Zucca, Francesco Musa e Nicola Cossu raccontano il più forte calciatore sulcitano della nostra generazione

Era altissimo. Giunonico. Te ne accorgevi quando facevi la fila per qualsivoglia desiderata della vita scolastica, tipo la ricreazione (dettaglio assai importante per un frequentante del liceo Edoardo Amaldi di Carbonia) ritrovandotelo davanti. Era altresì leggiadro. Perché quando quella vita un po’ spettacolare e un po’ circense degli anni duemila del liceo si spostava su un rettangolo di gioco, come quello del campo di Santa Barbara preso in prestito a qualche società giovanile del Carbonia, Simone Aresti diventava l’immagine della voglia di volare e non della paura di cadere. Come una vertigine, quel salto che tra i pali era già capace di donargli il vigore tipico di un gesto atletico perfetto, ti tramortiva e ti lasciava lì, inerme, in attesa del successivo. È così che Aresti ci ha conquistato ai tornei scolastici. Quando il derby tra Amaldi e Angioy lo ha vinto assieme ad una banda che quell’anno è arrivata fino alle finali regionali (poi ci arriviamo) nel suo primo e unico anno fatto nel mio stesso istituto superiore. Poi è iniziato ciò che la sua vita gli ha offerto ad un prezzo alto, ma caratterizzato dalle emozioni più intense: il nomadismo. Come un’estate bellissima, come una serata in cui sugli scogli di Mangiabarche (nella sua amatissima Calasetta), da cui si vede un mare a perdifiato, non vorresti rialzarti più, è passato altrove. Era troppo per noi.

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Andrea Porcheddu. Il mio senso di restare al Carbonia Calcio

Arrivo con un po’ di anticipo rispetto all’orario in cui terminano gli allenamenti e nel quale ci siederemo sulle tribune dello Zoboli per iniziare assieme l’anno che accompagnerà Sportisola nel mondo del Carbonia e Andrea Porcheddu nell’anno più impegnativo della sua carriera.

Ph: Fabio Murru

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